La mia Maratona di Tokyo

Un sms di Luca, un messaggio di Flavio su Facebook. C’era un po’ di Avis con me anche a Tokyo, a otto ore di fuso, 11mila chilometri di distanza, curiosamente nella stessa domenica della nostra gara. Due appuntamenti così distanti, letteralmente, eppure così vicini pere me. E a questa coincidenza ho finito col pensare spesso. Era la mezzanotte in Italia e la notte era calata da un pezzo su viale Cremona quando, alle 8 del mattino di Tokyo, mi dirigevo sotto la pioggia al deposito borse nella splendida calca dei 39mila (32 per la maratona, 7 per la 10 km) davanti al grattacielo a due torri del Tokyo Government Building (praticamente il municipio). Prima che i miei compagni di squadra si ritrovassero a Pavia agli ordini del sergente Tarcisio nel piazzale del circolo Amati, io avevo già corso al freddo e sotto l’acqua la mia maratona e, senza fretta, riguadagnavo la via dell’albergo (una ventina di minuti a piedi e 29 – precisi precisi, come da programma – di metropolitana). Alle 8 ore italiana, mentre a Pavia si distribuivano bandierine e pettorine gialle ed Eugenio avviava la gioiosa macchina del deposito borse, io alle 4 del pomeriggio di Tokyo facevo tappa a un McDonald’s per la merenda (anche Baldini fa così, giuro…) prima di fiondarmi finalmente sotto la doccia.

Partiamo dalle cose brutte? Viaggio massacrante (11 ore all’andata, 12 al ritorno) e fuso mai riassorbito: ho dormito 10 ore in cinque notti (abbiocco nei luoghi più impensati e occhi a palla nel cuore della notte, una tortura). E il meteo si è rivelato precisissimo: se Tokyo ci aveva accolto con 17 gradi, si è rivelata poi crudele nel regalarci una maratona a 3 gradi centigradi e sotto un’acqua impietosa, che per me ha smesso di cadere al 35mo km quando ormai avevo rinunciato a ogni velleità e, stremato dal freddo e fiaccato da tutto quel sonno perso, corricchiavo in modalità very easy, mangiando banane ai ristori e prendendomela molto bassa (intraducibile in giapponese).

Il resto tutto bello, a tratti bellissimo. Tralascio le considerazioni sulla città, che in tre giorni pieni ho soltanto assaggiato (ma è un immenso catalogo di cose interessanti, tra storia, usi e costumi). La maratona è invece una gran cosa e, quel che più mi ha colpito, organizzata in maniera pazzesca. Non so quanti fossero i volontari al lavoro, ma vi do qualche dritta: tutto il percorso, a destra e a sinistra della carreggiata, era presidiato da un addetto ogni dieci metri: va bene che circa metà di gara si svolge su viali dove si fa andata e ritorno, ma fate voi un conto approssimativo. Per non dire di quelli che erano dislocati ai servizi della partenza, o ai ristori (che erano dodici, se non ricordo male), o ai medical center, o all’arrivo. Visto che tra noi l’argomento del giorno è il deposito borse, vi racconto quello di Tokyo. Un enorme capannone (come fosse il PalaRavizza vuoto e senza tribune, per dire) con le 32mila borse disposte ordinatamente per terra secondo i primi due numeri del pettorale (che corrispondevano al numero dei camion in cui avevamo depositato la borsa in partenza). Io sono arrivato circa a metà del gruppo. Cerco il mio numero, vado, una signora mi vede avvicinare, legge il mio pettorale e lo recita a una ragazza (non ero ancora lì davanti), la ragazza parte e torna dopo dieci secondi con la mia borsa. Tempo di attesa: zero! E, come potrete immaginare, in una maratona si arriva a frotte, non uno ogni tanto. E si arriva in 32mila.

Con l’amico Danilo, il mio socio di maratone, abbiamo confrontato a lungo New York e Tokyo, decidendo che la migliore è proprio quest’ultima. Certo, ben più scomoda e ben più difficile (pochi pettorali a disposizione) per gli occidentali.  Ma migliore. Non solo per la qualità dell’organizzazione (più di così è difficile, credo), ma anche perchè non ha per nulla sfigurato rispetto ai tradizionali “plus” che rendono New York la maratona più amata (o più di moda) del mondo. Il pubblico, per esempio. New York è una festa incredibile, d’accordo. Ma Tokyo non è stata da meno. Non mi sarei mai aspettato tanto calore. Sotto l’acqua e al freddo, la gente ha presidiato tutti i 42 km. Non un tratto vuoto. Magari meno numerosi e più composti dei vocianti newyorkesi, questi giapponesi, ma sistematicamente presenti. E tifanti. Commoventi, poi, negli ultimi dieci chilometri, quando in tanti si sporgevano con i loro vassoi a offrire dolcetti e frutta al gruppone fradicio e ansimante.

Cosa mi sono portato a casa? La soddisfazione di averla finita, come al solito. Di avere aggiunto una tacca importante alla carriera da podista (ero uno dei 40-50 italiani al via su 32mila). Di averla saputa vivere con il necessario distacco che, nonostante freddo e stanchezza, mi ha fatto arrivare lento (4h 10′ 54″) ma sano e molto sereno all’arrivo. E poi un sacco di belle immagini. Una su tutte. Rifornimento del 35mo chilometro, io che caracollo in direzione “Finish” e tutti i volontari (almeno una quindicina) di un lungo bancone di bevande che si sporgono per darmi il cinque. “Ganbarè, Ganbarè!” (dai, forza, non mollare). E mi si è aperto il cuore.

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