Quest’anno un amico mi propone una nuova gara, 164 km e 10600 m D+. Purtroppo sarò da solo in quanto il socio pensa bene di imbarcare a bordo il Covid e deve rinunciare.
Siamo nel Queyras, a un’ora e mezza dal passo del Monginevro. Qualche anno fa mi ritirai in un trail analogo, ma ricordo ancora la bellezza dei luoghi e quindi ben volentieri ci voglio tornare.
Sulla carta il dislivello non è mostruoso. Il vero fatto è che ci sono stati molti tratti in piano o falso piano, dove era semplice “trottiner” come dicono i francesi, ovvero andare al piccolo trotto.
E questo agevolava, ma l’altro lato della medaglia era che il dislivello non era spalmato per benino bensì concentrato su salite veramente impestate con pendenze che arrivavano tranquillamente al 30% su tratti che andavano al di là della definizione di “strappo”.
Questo, unito al caldo, ha causato una percentuale di ritirati che se non mi sbaglio si è avvicinata alla metà dei partenti.
Il fatto è che io (che ho la stessa cognizione di un tondino del 16) non ho messo nulla per proteggermi dai raggi solari, col risultato di perdere umidità sottocutanea e quindi capacità di termoregolazione. Appena si alzava un minimo di vento o si passava all’ombra sentivo subito abbassarsi la temperatura corporea, con un bel susseguirsi di caldo-freddo che alla fine mi è stato di aiuto più che il contrario.
L’Augusto, quando ne combina una giusta, è sempre per caso fortuito e assolutamente involontario.
Ripeto, panorami bellissimi. Il peccato è stato arrivare sopra ai 3000 m in piena notte e perdersi una vista che altri mi hanno confermato essere spettacolare.
Comunque, altitudine media appena sopra ai 2000 m, quasi tutto sopra ai 1600 m, 11 vette sopra ai 2400 m.
Per la prima volta ho visto trailers fermi in mezzo a una salita, normalmente uno mette la ridotta e si chiede che cosa ci sia dopo la vita. Questa volta invece tanti sguardi nel vuoto.
Encomio all’organizzazione (sì, pure qui c’era chi si lamentava, improvvisamente diventavo ignorante e smettevo di parlare in una lingua diversa dal dialetto stradellino, che peraltro ha assorbito molto dal francese), ma soprattutto ai volontari che sono stati magnifici.
A parte dare sempre informazioni giuste, disponibilità a mille e battuta pronta. Io che poi ai ristori divento un chiacchierone ho avuto davvero un forte aiuto da questo.
Mi sono concesso un sonno di 20 minuti in tutto, la seconda mattina inoltrata.
Piccola crisi nel pomeriggio, ma nulla di che.
Mi sono fatto un sacco di letture, nel senso che per ore ho letto (diciamo creduto di leggere) parole peraltro insensate sulle pietre; riconoscevo benissimo le lettere ma non il significato.
In compenso la regina delle allucinazioni è stata all’arrivo, quando un campo si è riempito di mazonesi: ricordate le cattive di capitan Harlock?
Queste figure diafane mi guardavano disinteressate e si piegavano da una parte all’altra seguendo il vento.
Non male, consideriamo che le birre dovevano ancora arrivare.
Gli ultimi 5 km si fanno in un continuo su e giù per un sentiero che porta a Guillestre.
Io non ero molto lucido, ma mi è parso una stradina fatta apposta per mountain bike, una specie di “parco divertimenti” con salite, discese e curve continue, guadagnando e perdendo quota ma tutto assai corribile.
Adrenalina a mille, ultimi 3 km in poco più di 15 minuti, il tutto per arrivare e stare sotto alle 47 ore, vanificato da (AAAARRRGHHH!!!) assenza di indicazioni in paese, in tre a cercare il traguardo nelle stradine fino all’indicazione di un locale.
C’era da piangere, ma no, ne abbiamo francamente riso.
Bon, mi pare di avere detto tutto.
A parte un problema parzialmente risolto di cui do solo qualche accenno: sfintere, arrossamento, fisiologica, salviettine Nivea baby, nascondini tra gli alberi.
Eh, risate a secchiate. Averne di esperienze così.
Dai, sono contento.
A fine maggio ho corso con Pietro la sua prima ultra, a 17 anni.
Siamo a Cruet, di nuovo in Francia, e ci sono 73 km e circa 5000 m di dislivello positivo.
Che sono, lo posso assicurare, tanti ma tanti. Causa piccolo infortunio finale, ci abbiamo messo 17 ore.
Guardando le spalle di mio figlio sull’ultima discesa mi sono rivisto alle mie prime volte, quando non vedevo l’ora che il supplizio finisse. Fino a quei classici 3-4 km finali, mentre capisci che ce l’hai fatta e che questo è davvero tutto tuo.
Rivivere certe esperienze guardando la schiena di tuo figlio e ascoltandone i discorsi sconnessamente entusiasti, beh è una sensazione che mischia i due ingredienti che rendono la vita degna di essere vissuta: orgoglio e stupidità.
Momenti?
Salita e io che dico a un volontario che al mio paese quella era l’ora dell’aperitivo. Quello mi offre una bottiglietta in acciaio con una grappa leggera alle erbe, e io capisco che alla mia età posso ancora essere follemente innamorato.
Ristoro, entro nella palestra e vedo il paradiso: un cartoccio pieno di roba da scartare e buttare, ma sono croste impolverate di formaggio. Mi butto e lascio che i miei succhi gastrici pensino alle conseguenze. Gnam.
Quando all’ultimo ristoro mi ricordo di chiamare la moglie in poco lieta apprensione. Faccio il numero e passo il telefono a un volontario pescato a caso. Che me lo restituisce. Giustamente, chi è causa del peccato pianga sé stesso.