Grand Raid des Pyrenées: un’altra avventura di Augusto

Augusto ci ha inviato l’emozionante racconto di un’altra delle sue fantastiche avventure. Ammirazione per il tuo coraggio, complimenti per l’eccellente piazzamento ed alla prossima!

Questa volta è andata, la trasferta era sui Pirenei per il Grand Raid des Pyrenées dal 22 agosto, 164 km con 20.000 m di dislivello totale.
Ho sacrificato 6 giorni delle ferie con la famiglia, che per me sono sacre, quindi non potevo proprio mancare l’appuntamento.
Non avevo mai corso una 100 miglia, è troppo facile quindi dire che è stata la più dura che abbia mai fatto.
Si parte alle 5 di venerdì mattina e subito pioviggina, speriamo in un miglioramento che però vedrà la luce solo nella tarda mattinata del sabato; per il resto, quando le nubi o la pioggia lasciano il passo a un timido sole, i panorami sono fantastici, secondo me meglio delle nostre alpi.
Iniziamo subito con una salita che ci porta dagli 800 m iniziali ai 2200 in poco meno di 15 km, ristoro e su fino ai 2500.
I cancelli nel tratto iniziale sono decisamente stretti, ma resto dentro comodamente grazie anche al fatto che, mentre in discesa ho grosse difficoltà dovute alla mia scarsa dimestichezza con le pendenze, in salita vado bene e riesco a rimontare parecchie posizioni.
Siamo al ristoro dei 30 km e sono le 11, adesso si attacca la cima più alta, il Pic du Midi fino ai 2876 m per una salita di 1600 m in 10 km.
Mi accompagno a qualche francese ma mi accorgo con qualche stupore che dopo qualche tornante lo stacco; proseguo col mio passo, arrivo al ristoro intermedio, il tempo di un paio di crackers e via fino alla vetta.
Qui piove sul serio e non c’è una base vita, quindi non mi fermo e ricomincio a correre in discesa, che finalmente si stempera su falsopiani erbosi dove è divertente lasciare andare le gambe, fino al 55 km.
E siamo tra le quattro e le cinque di venerdì pomeriggio.
In questo tratto c’è una salita che da un lago bellissimo porta all’ennesima punta prima della discesa erta del ristoro al 63 km: la salita è un drittone senza tornanti che avevo sottovalutato, per quanto breve si procede inclinati in avanti e correre è impossibile.
Una volta arrivati non mi fermo più fino alla prima delle due basi vita, al 75 km, dove arrivo verso le otto e mezza di sera per il primo cambio (calze, pantaloni lunghi, maglia, gore-tex) e per una cena calda a base di “soupe”, ovvero brodo caldo con un po’ di pasta e formaggio grattuggiato.
L’organizzazione impedisce, causa maltempo e temperature basse, di proseguire da soli, quindi ben volentieri accendo la frontale e alle nove e mezza parto con un gruppetto, per una ascesa da 500 m a 2334 m in poco meno di 15 km.
Cala la notte, piove e c’è fango; non posso tenere gli occhiali e la frontale purtroppo falsa la prospettiva, complice il fango scivoloso è un susseguirsi di passi falsi e scivolate, un calvario appesantito dal fatto che in questo tratto non ci sono alberi, le balises riflettenti sono posate a terra e individuarle ci costringe a una caccia al tesoro estenuante, con errori di percorso di poche decine di metri ma comunque fastidiose.
Arriviamo in cima e cominciamo a scendere verso il ristoro del 102 km: purtroppo la situazione del fondo peggiora, perdo i contatti con tutti e proseguo da solo rallentando parecchio.
Alla fine arrivo poco dopo le 4 di sabato mattina e ritrovo i miei compagni; mi sento molto bene, non mi fermo e esco dal ristoro insieme con loro, ci inerpichiamo per la cima seguente, 1000 m di dislivello in 8 km.
Compare l’alba, ma il sole tarda a venire nascosto dalla bruma pesante; anche la temperatura resta bassa, quindi la sensazione gradevole delle batterie che si ricaricano dopo la notte non c’è proprio, arriviamo in cima al ristoro ma decido di andare avanti da solo verso la seconda base vita del 122 km, dove arriverò verso le nove e mezza di sabato mattina.
Adesso mi fermo, mi cambio le calze e sostituisco le solette delle scarpe.
Ho i piedi completamente bianchi e cotti, per fortuna nessuna vescica, ricorro alle cure di un podologo che mi massaggia e mi mette una crema lenitiva.
Che servirà a poco, le calze di ricambio sono umide e si deve ricominciare a correre.
Dopo un’ora esco e attacco le ennesime salite, il cielo adesso è terso e per la prima volta vado in maniche corte.
In quasi 3 ore arrivo al 134 km, e comincia il patimento maggiore.
La cima successiva è a 8 km per un dislivello di 1000 m, ma il sole è battente, la stanchezza tanta e anche sul road-book dell’organizzazione questo tratto è segnalato come critico.
A metà mi parlo come faccio col figlio maggiore quando siamo in montagna: sei stanco e hai pure ragione, ma o resti stanco qui oppure muovi le gambe e ti trascini verso la fine.
Ormai fino a questo punto sono arrivato, ritirarsi proprio non è un’opzione.
Alla fine arrivo, 2465 m e una vista che riempie il cuore, si domina tutta la vallata e si vedono laghi dal colore azzurro intenso.
Siamo al 142 km, ma non è finita in quanto la discesa è un calvario: le piante dei piedi sono entrambe ferite e vengo sorpassato da tanti corridori.
Per me l’essenziale è finire, il tempo non ha importanza, scoprirò alla fine che la mia posizione in classifica non muterà, segno che tutti quelli che mi hanno ripreso alla fine erano i concorrenti che nelle salite precedenti avevo superato.
Procedo per un paio di km ma proprio non va.
Penso allora che una roba del genere non può esistere, non posso far notte qui; e allora ricomincio a correre.
Sulle prime mi pare di avere gli aghi sotto ai piedi, ma a poco a poco il dolore si attenua e comincio a fregarmene delle eventuali conseguenze.
Arrivo sgambettando all’ultimo ristoro del 150 km, una piccola salita e poi 14 km di discesa.
Purtroppo il fermarmi causa il riacutizzarsi del dolore, e devo camminare con molte difficoltà per un’ora buona prima di poter ricominciare a correre ignorando i miei poveri piedi.
Così è, l’ultima decina di km accelero fino a vedere le luci del paese, ma i boschi che ci separano sembrano interminabili.
Accendo la frontale che sono quasi le otto e mezza di sabato sera, sta entrando la seconda notte e cominciano le allucinazioni.
Penso sia capitato a tutti di vedere con la coda dell’occhio cose irreali: beh, in questo caso è lo stesso, ma avvicinandomi e focalizzando meglio la visione non se ne va.
E allora vedo un cagnolone bianco a macchie verdi, e tra gli alberi c’è un sacco di gente che sta dando l’acqua con una canna o con un imbuto.
Francamente non ci bado e penso solo a procedere.
Sono le nove e mezza e entro nel rettilineo finale, non riesco nemmeno a commuovermi e taglio il traguardo come in un sogno.
Qualcuno, vedendo che sono italiano, mi intervista in francese, riesco a rispondere guadagnando quel po’ di lucidità, bevo finalmente una birra e torno all’appartamento.
Le mie compagne di corsa (terza e quarta di categoria) arriveranno dopo qualche ora, ma io sarò già a dormire.
Il giorno dopo alle otto e mezza dopo sette ore di sonno sono già in piedi, troppe le sensazioni, le endorfine corrono ancora su e giù per le sinapsi, l’adrenalina scuote le atrofizzazioni dei muscoli, scendo in piazza e mi godo una birra al tavolino del bar, baciato dal bel sole radioso e caldo di una domenica mattina, sperduto sui Pirenei, sorriso stampato in faccia e la sciocca sensazione di essere diventato, finalmente, maggiorenne.
Quello magari no, ma davvero qualcosa in me è cambiato, qualcosa in quelle 40 e passa ore non è più lo stesso, e con meraviglia mi sorprendo a desiderare di farne un’altra pur di poter godere ancora di questa pace tutta particolare.
Per gli amanti dei numeri (tra cui il sottoscritto): partiti poco meno di 700, arrivati in 404,  mia posizione 207.
Finisher.

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