Augusto nella neve al Tor des Geants

Il nostro Augusto ci racconta la sua epica avventura al Tor des Geants, l’endurance-trail più duro al mondo:330 km di sviluppo orizzontale, 24.000 m di dislivello verticale con 35 colli al sopra dei 2.000 m.. Quest’anno la direzione di gara ha dovuto sospendere la gara per neve.

Bon, dai, è ormai venerdì sera e sono passati ormai cinque giorni.
Se non scrivo adesso non scriverò mai più, quindi mi metto un po’ di impegno.
Ho finito il Tor des Geants.
Cioè, sono arrivato fino a dove Giove Meteo (o chi per lui) mi ha concesso, a circa 20 km dalla fine, prima che una tempesta di neve fermasse la gara, quando comunque le riserve di energia, il tempo a disposizione e soprattutto la mia volontà di arrivare al traguardo mi avrebbero CERTAMENTE permesso di tagliare il traguardo più ambito, a Courmayeur.
Sì, ci sarei arrivato, e infatti sono un finisher ufficiale. E assicuro che ci sarei arrivato.
Quindi sì, sono un finisher.
Un Gigante.
Lo dico senza nessuna aria di gloria o di onnipotenza, ma fino in fondo ci sono arrivato.
Marciare per 330 km al posto dei 350 ufficiali, con un dislivello di 28.000 m, è stato un traguardo e un obbiettivo raggiunto, indipendentemente dai risultati sulla carta.

Siamo partiti domenica 11 settembre, tra due ali di folla che avrebbero, e hanno, spinto sulle gambe tutti noi che siamo partiti, in una ebbrezza che andava al di là di ogni sentimento disponibile.
Nessuno poteva fermare quell’inizio trionfale, che solo qualcuno avrebbe spinto fino al traguardo.

Sono stati sette episodi da 50 km l’uno, iniziati con due tappe in cui abbiamo affrontato tre più tre colli al di sopra dei 2700 metri, gli ultimi due (alla seconda tappa) sopra ai 3.000 metri. Entrelor e Loson una stilettata nelle scapole tra vallate infinite e ascese di sassi e roccia dove fermarsi a rifiatare per un momento significava dare ragione alla stanchezza, quindi niente requie e tira innanzi nonostante il bruciore dei polmoni e dei polpacci ormai abbrustoliti.
Montagne scalate con irruenza e fatica, senza quasi pensare che sarebbero state solo l’inizio di un cammino ben più impervio.
Nessuna fatica iniziale può rendere l’idea dei km che ci aspettavano, alcuni semplici ma quasi tutti resi difficili dalle ore passate e ancora da passare sulle gambe, con la testa che a volte diceva di mollare e di prendersi almeno una pausa.

Dopo Courmayeur-Valgrisanche e Valgrisanche-Cogne c’è stata la Cogne-Donnas, quando le Finestre di Champorcer ci danno un panorama alla seconda alba di assoluta goduria.
Siamo a quasi 40 ore di gara, poco più di un terzo (ma la prospettiva è di avere ancora 100 ore davanti) e finora ho dormito bene, poco più di due ore in tutto.

Accidenti, adesso sono 30km di discesa.
Ora, pare quasi bello, ma assicuro che la noia incombe e strappa via dall’anima qualsiasi senso di realtà, si scende per tracciati impervi quando va bene, altrimenti sentieri noiosi e decisamente DECISI a catapultarti verso mondi dove il tempo non passa mai, soprattutto quando si attraversano boschi anonimi che non lasciano galoppare la fantasia, che invece pensavi potesse accompagnarti su panorami degni di questo nome.

Dai, arriviamo a Donnas, spenti dalla noia e dalla conseguente fatica.
Base vita (la terza) e nanna di un’ora su un tavolo, poi rinnovo le fasciature ai piedi e mi innesto a sera tarda sui sentieri.
Adesso la meta è il rifugio Coda, metà percorso, 170 km.
Arriviamo tra bruma e freddo e vento, entro al rifugio e il solito brodo caldo mi ristora, col pensiero di rituffarmi sul tracciato che ora è dannatamente impervio fino al prossimo ristoro, tra sali e scendi senza apparente soluzione di continuità.
La nebbia attorno e solo una ulteriore conferma della nebbia che mi porto addosso, ma rischiara e l’ennesimo rifugio mi offre un appiglio per gambe e pensieri.
Che però adesso si fanno funesti: maledizione, sono indietro rispetto ai tempi (no, non è vero, ma mi pare vada così) e allora parto di corsa o almeno per quanto le mie energie mi permettono, quindi accelerata brusca e via per salite e discese cercando di trottinare guadagnando un minimo di vantaggio.
Scalo due monti superando un po’ di gente, ma siamo ancora così indietro sul percorso che capirò più tardi di avere usato energie per nulla.
A Niel finalmente mi calmo, mangio polenta e dormo, poi salgo al Lasoney e finalmente scendo a Gressoney, due terzi di gara.

Qui mi calmo un po’, riposo su una brandina e riparto in piena notte.
Due colli duri, ma mi affianco a chi ha un passo che mi aggrada, però a differenza mia è costante, quindi riesco a scollinare (beh, scollinare, siamo pur sempre sopra ai 2700 metri) senza affanni, fino a Valtournanche.

Via, via, via. Adesso non mi fermo più e riparto, ma è un tratto infido con rilievi che di notte lasciano solo all’immaginazione tutto il duro che le gambe mie e dei miei compagni riescono solo a immaginare, rapiti come siamo ormai dal tracciato che non lascia niente alla programmazione che magari qualcuno si è lasciato riporre in una qualsiasi strategia da seguire, fino alla prossima base vita.
E beh no, a questo punto siamo cani sciolti senza ciotola e guinzaglio, bene da un lato e male dall’altro.

Ormai in piena notte arriviamo all’ennesima cuccia fatta di luce, caldo e tavoli dove appoggiare la testa, mentre attorno molta gente sta dormendo in terra.
Finalmente.
E finalmente ciascuno appoggia quel che può (la testa, le gambe, la schiena) in un minimo ristoro che possa spingere verso i km che aspettano verso la fine. Una fine a cui sinceramente adesso nessuno pensa nemmeno più, nel senso che è là, ma che è bene non aspettare né tantomeno visualizzare, troppa roba ancora da sostenere.

Adesso è una allucinazione continua che ci conduce fino al Col Vessona, prima beninteso di una cacchio di discesa che nessuno si aspettava, vigliacca prima dell’ennesima salita che di notte è dipinta dalle frontali di chi ci precede e che tratteggia l’ennesima cicatrice cui ci sottoporremo.

Arrivo alla baracca-alpeggio, non riesco a stare dritto e capisco che devo lasciare i miei compagni, quindi mi adagio con altri dieci in un letto a castello, tutti raggomitolati sotto a coperte che hanno visto tempi migliori (mi stendo e qualcosa crocchia sotto alla mia schiena. Prendo una malattia? Bene, sempre meglio che precipitare dalla prossima discesa).
Il proprietario mi sveglia verso le cinque e mi spinge giù dal giaciglio, e fa solo un gran bene.
Adesso esco, fa freddo ma gli ultimi 200 m di positivo mi svegliano e mi sbattono in faccia un’alba stupenda. 1400 m di dislivello negativo in 10 km, i primi su sfasciumi, poi pian piano su sentiero.
Non incontro nessuno, e alla fine corro per quasi 8 km incontrando un falso piano su sterrato.
Eh sì, corro. Eh sì, sto correndo. Cioè, dopo 285 km corro, per almeno mezzora.
È bellissimo, il sole è alto e sto correndo.
Questo è il momento più bello perché capisco che il mio corpo mi appartiene ancora e che ne ho il pieno controllo. Non ho fame, non ho sete, non sono stanco, sono nel bel mezzo di un nulla che nessuno mi farà riampiangere.
E riesco a correre.
Tutto questo è bellissimo.

Alla fine arrivo a Oyace, poi alla base vita di Ollomont.
Rivedo un sacco di facce amiche, poi basta, dormo. Un’ora e mezza.
Qui perdo tempo e resto per quattro ore, troppe.
Ma non mi raffreddo, e parto verso sera verso il penultimo colle, che mi mangio veramente in poco tempo, è tutto bello e io mi sento bello uguale.
Poi l’ennesima notte scende e c’è il tratto più noioso della gara, intervallato da un ristoro mondiale dove mangio la polenta più buona del mondo.
Appena prima che il cuoco estragga un piatto di pesce di mare appena cucinato, che contribuisco a divorare con tutti i miei compagni che ho raggiunto.
E lasciamo stare il vino rosso, e il limoncino…ma è storia di uno stomaco ormai disgiunto da qualsiasi rapporto di causa e effetto. Quindi va bene così.

Ripiglio contatto col sentiero insieme a altri due corpi (questo ormai siamo, a questo punto) e procediamo verso Bosses.
Dove TUTTO avrà compimento, e si deciderà il destino di noi petali di rosa in una burrasca imprevedibile.

A Bosses (dicevo) arrivo e senza degnare di uno sguardo i tanti amici mi spalmo sotto a un tavolo.
Dormo.
Eccheccazzo.
Ma dormo proprio, tant’è che mi sveglio dopo un’ora, mangio qualcosa e poi riparto, vigile come un furetto.
A cui magari hanno tagliato denti e coda, ma riparto come se non ci fosse un domani.
Che avrebbe dovuto esserci, ma vabbè…

Salgo benissimo. Inizia a nevicare e come un bimbo qualsiasi giosco: la neve mi mancava da matti, è bellissimo che adesso faccia la sua comparsa e riempia un ciclo meraviglioso.
Pian piano la neve attacca, ma siamo solo a poco più di 2000 m, penso che sia solo una cornice inattesa ma dopotutto congrua con l’impresa.
Invece no, ai 2300 m diventa bufera.
I fiocchi adesso non permettono più di andare avanti regolarmente: non è solo una questione di meteo, ora la traccia del sentiero è completamente scomparsa e le balises riflettenti non si vedono più.
Inzio a procedere a zig zag per scoprire dove sto andando.
Poco più sotto di me un concorrente francese si sta perdendo, lo chiamo e lo aspetto, meglio essere in due che da solo.
Quello mi si affianca e mi dice di condurlo. Non so bene come, ma riesco a trovare a tentoni la strada giusta, in parte grazie anche all’eseperienza che ho accumulato nei trail, ovvero “immaginandomi” il percorso più logico. E assicuro che non c’erano indicazioni che a quel punto potevano essere seguite, semplicemente andavo verso il punto più alto e quindi più probabile.

Intanto, dietro di noi, un’altra decina di frontali pian piano si allontanavano.
Avrei voluto scendere per chiamarle, ma in quel delirio di tormenta sarebbe stato inutile, quindi scelgo di proseguire col mio compagno.

Dopo due ore di salita arriviamo al rifugio Frassati, poco più di 20 km all’arrivo su 350 km di gara.
Qui siamo tutti stravaccati in terra o su tavoli, siamo stati giustamente fermati, è impossibile avanzare ulteriormente.
Aspettiamo per molte ore, finché l’organizzazione decide di interrompere la gara.

Morte.
Morte mentre sono vivo.
Sono a uno schifo dall’arrivo. Uno schifo che avevo immaginato per tante ore di percorrere in una gloria di emozioni e di sensazioni che non potrei descrivere mai.
Siamo fermi.
A un battito d’ali dall’arrivo.
Con tante di quelle ore da permetterci di andare, venire, e andare ancora.

Va bene
Va bene, no dai, va bene.
No, col CAZZO, non va bene per niente.
Ma alla fine scendiamo la mattina dopo, su una poderale, mentre tutto intorno c’è un panorama fantastico di neve che ricopre i monti, e il cielo è azzurro.

Che dire a questo punto?
L’ho avuto. Avrei potuto averlo del tutto, ma mi è sfuggito.
Non sarebbe stato possibile finire in altra maniera, quindi è stato mio, tutto mio.
Qualcuno è arrivato alla fine a Courmayeur, prima della tempesta.
Ma il mio obbiettivo era di arrivarci nel massimo tempo possibile per non rovinarmi.
E ce l’avrei fatta.
E ce l’ho fatta.

Con questo, ovviamente ci tornerò.

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